Per secoli la Slovenia, alcune parti della Croazia, della Serbia e del Montenegro hanno fatto parte dell’Impero asburgico. La Bosnia-Erzegovina è stata amministrata da Vienna per diversi decenni tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale. Cosa rimane di questi legami storici nella politica estera austriaca di oggi? Ne abbiamo parlato con Florian Bieber, direttore del Centro di studi sul Sud-Est europeo dell’Università di Graz.
Come evolve la politica estera austriaca nei Balcani dopo il crollo dell'Impero?
Tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, Vienna si disinteressa dei Balcani occidentali. A quel tempo, l’Austria era uno Stato debole e conteso, che nel 1938 fu annesso dalla Germania nazista. Gli ufficiali austriaci che avevano una buona conoscenza dell’Europa sud-orientale e che magari parlavano una o più lingue slave, proprio perché cresciuti in un impero multietnico, diventano a quel punto dei buoni collaboratori del regime nazista nella zona. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Vienna assume una posizione neutrale nella Guerra Fredda e stabilisce delle relazioni diplomatiche con la Jugoslavia, mentre dopo le guerre degli anni ’90 le relazioni con l’Austria variano a seconda della posizione nella regione. Ad esempio, la Serbia, soprattutto sotto Slobodan Milošević, non ha un’immagine positiva dell’Austria, che viene vista come filo-slovena e filo-croata.
Qual è oggi l'approccio austriaco ai Balcani occidentali?
Credo che si possa parlare di una “riscoperta” dell’Europa sudorientale da parte di Vienna. C’è sicuramente un senso di vicinanza geografica, a cui si aggiungono l’eredità storica, gli interessi economici (con le molte aziende austriache, in particolare banche, presenti nei Balcani occidentali) e la grande comunità balcanica presente in Austria. Tuttavia, sebbene alcuni diplomatici austriaci amino talvolta evocare il comune passato imperiale, a mio avviso non esiste una vera e propria eredità in politica estera, proprio per le ragioni che ho menzionato in precedenza. Insomma, se in Turchia si parla di un “neo-ottomanismo”, cioè di un’ideologia che spinge per un maggiore impegno politico di Ankara nelle aree che facevano parte dell’Impero Ottomano, in Austria non c’è assolutamente un “neo-asburgismo”, anche perché in diversi Paesi dell’Europa sud-orientale l’identità nazionale è stata costruita in opposizione agli Asburgo. Questa eredità, insomma, si rivelerebbe complicata anche da un punto di vista simbolico.
Quali sono le priorità di Vienna nel Sud-Est europeo?
L’allargamento dell’Europa ai Balcani occidentali è certamente la principale priorità della politica estera austriaca nella regione. Ma al di là di questo punto non vedo una politica estera coerente verso l’Europa sud-orientale. In ogni caso, l’attuale politica estera austriaca nei Balcani è in gran parte un prodotto degli anni Novanta. Ad esempio, la numerosa comunità balcanica in Austria (formatasi negli anni Sessanta-Settanta con il fenomeno dei Gastarbeiter e poi negli anni Novanta con i rifugiati di guerra) contribuisce a creare una certa attenzione e un senso di vicinanza. E in questo contesto è interessante notare che è la Bosnia-Erzegovina a godere del maggior sostegno per l’allargamento tra la popolazione austriaca, e questo proprio grazie all’esperienza positiva dell’accoglienza dei profughi bosniaci negli anni ’90. Ma si tratta di un’eredità recente. Dai tempi dell’Impero asburgico ci sono state troppe cesure perché si possa parlare di continuità in politica estera. Oggi, tutto ciò che rimane del passato imperiale (simboleggiato, in questo contesto, dall’Accademia diplomatica inaugurata nel 1754 e ancora in funzione) è un’eco lontana che a volte riconosciamo a causa delle priorità contemporanee.