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La palma slovena sul Nilo

Immaginiamo di compiere un viaggio indietro nel tempo, di recarci nell’Egitto del XXesimo secolo. Girovagare per le strade del Cairo e di Alessandria, allora,  significava imbattersi in numerosi funzionari europei, uomini d’affari e dame sofisticate, tutti vestiti con abiti eleganti e affiancati da servitori. Superati i bazar, rumorosi e traboccanti dell’aroma di spezie e incensi, potremmo passeggiare per i verdi parchi pubblici, dove non sarebbe raro vedere carrozzine spinte da giovani donne di carnagione bianca, vestite in abiti raffinati di raso, pizzo o seta. Erano le Aleksandrinke e quella che oggi vi andiamo a raccontare, è la loro storia.

Il 17 novembre 1869, di fronte a tre grandi tribune gremite di funzionari europei e dignitari ottomani, veniva inaugurato il Canale di Suez, la più grande opera d’ingegneria del XIX secolo.

Per la prima volta, il Mediterraneo e l’Oceano Indiano erano collegati da un’unica via d’acqua, e il viaggio verso l’India, fino ad allora compiuto in molti mesi, divenne questione di poche settimane. L’Egitto si trovò allora al centro degli interessi economici di tutto il mondo, attirando funzionari e ricchi imprenditori da tutta Europa i quali, oltre che dai loro affari, erano accompagnati anche da mogli e figli.

Questa improvvisa ondata migratoria non interessò unicamente la più alta borghesia; ad essa, infatti, si accompagnava una moltitudine silenziosa di personale salariato. Tra questa spiccavano, nel ruolo di cuoche, balie e governanti, donne provenienti dai territori meridionali dell’impero asburgico, come la valle del Vipacco, il Goriziano e il Carso, che per più di un secolo, tra la metà dell’Ottocento e il secondo dopoguerra, migrarono in massa in Egitto alla ricerca di condizioni di vita migliori. 

Chiamate anche Goriciennes, Slaves e Slovènes, erano note per essere pulite e ordinate e allo stesso tempo solari e materne, più «mediterranee» rispetto alle loro severe colleghe nordeuropee. La vita nelle campagne le aveva abituate al pragmatismo e al duro lavoro.

Inoltre, l’appartenenza all’Impero asburgico garantiva loro un grado di educazione molto superiore alla media, facendone figure professionali ambite anche presso le clientele più illustri. Sebbene la lingua madre di queste giovani fosse generalmente lo sloveno, provenendo da un impero multietnico e multilingue come quello asburgico, spesso parlavano anche il tedesco, il friulano e l’italiano (o il dialetto triestino); inoltre, in Egitto non era raro che imparassero anche inglese e francese e a volte addirittura il greco e l’arabo!

Ma perché abbandonare la propria casa? Perché andarsene così lontano, in una terra sconosciuta? Lasciare senza madre bambini appena nati per andare a far da balie oltre mare a figli d’altri?

S trebuhom za kruhom, si diceva, ossia “a cercar fortuna”. Non era che questo: si partiva alla ricerca di condizioni migliori. Per il bene della famiglia queste donne facevano le valigie, si recavano a Trieste e da lì prendevano un piroscafo che le avrebbe condotte lontano, nella speranza di offrire una vita migliore a chi si lasciavano alle spalle.

L’Egitto doveva apparire a queste donne come un altro mondo: le città erano metropoli traboccanti di vita, le strade erano affollate e i negozi riforniti dalle boutique di Parigi e Londra.

Le dimore dove prestavano servizio erano dotate di comodità impensabili per le donne slovene, come ad esempio il bagno in casa, l’acqua corrente e l’elettricità, che introdussero le Aleksandrinke alle meraviglie del XX secolo. Tutte queste comodità, unite a uno stipendio di circa quattro volte superiore a quello cui avrebbero potuto aspirare in Europa, non erano però sufficienti a far dimenticare la propria casa; la nostalgia era forte, e solo insieme queste donne riuscirono a trovare il coraggio di proseguire sulla strada che avevano intrapreso.

Con il prezioso contributo dell’ordine delle Suore Scolastiche Francescane di Cristo Re, ad Alessandria era stata allestita una cappella, dedicata proprio alle donne slovene, con un’immagine della Vergine proveniente dalla Sveta Gora, la montagna sacra di Gorizia.

Inoltre, alla fine dell’Ottocento, venne fondata un’associazione: la Slovenska palma ob Nilu, «la palma slovena sul Nilo», per dare supporto alle molte donne che per trovare lavoro avevano lasciato casa. L’associazione si fece anche carico delle donne giunte nel paese ancora senza una professione istituendo un asilo: l’Azil Franja Josipa, «asilo di Francesco Giuseppe», comprendeva anche una scuola slovena, una scuola materna e una biblioteca.

Le riunioni avevano lo scopo di far sentire più vicino a casa le Aleksandrinke: si cantavano canzoni popolari slovene, si leggevano libri, si assisteva alle messe in sloveno e si allestivano piccole rappresentazioni teatrali. In queste occasioni si scambiavano notizie da casa e, nei momenti più neri, cercavano il conforto e il sostegno di volti amici che potessero comprendere la nostalgia e la solitudine, sentimenti che non dovevano essere estranei a queste donne, costretta dalla necessità a lasciare tutto ciò che conoscevano per l’ignoto.

Durante gli anni atroci dell’immediato secondo dopoguerra, quando Gorizia costituiva la propaggine meridionale della cortina di ferro che divideva l’Europa, il flusso costante di denaro inviato dalle Aleksandrinke permise molto probabilmente di strappare un numero incalcolabile di connazionali all’inedia e alle malattie.

Eppure, nonostante tutto, per quasi tutta la seconda metà del Novecento, queste donne sono state trattate con diffidenza e disapprovazione piuttosto che con gratitudine. Al loro ritorno, si trovavano accolte in un clima di sospetto e disapprovazione. Venivano accusate di aver abbandonato i figli e dimenticato le tradizioni. Erano anche accusate di condurre una vita dissoluta: gli abiti raffinati, le borsette e i cappellini decorati sarebbero stati prove di questa dissolutezza, oltre alle lingue imparate (compreso l’arabo) e le nuove abitudini acquisite in quelle terre remote. Nelle fantasie bigotte dei loro concittadini rimasti a casa, infatti, l’Egitto era un luogo di perdizione, di dissolutezza fisica e mentale, un luogo che avrebbe di certo indotto in tentazione le giovani e inesperte slovene che prendevano il mare.

Sebbene la storia delle Aleksandrinke non sia molto conosciuta, la Slovenia, divenuta indipendente nel 1991, alla ricerca di modelli virtuosi di patriottismo, ha recentemente riscoperto le vicende delle slovene d’Egitto. Alle Aleksandrinke sono allora stati dedicati libri e film, approfondimenti trasmessi dalla televisione pubblica e ricerche accademiche. Il loro vissuto ha varcato la soglia delle aule scolastiche. Donne un tempo stigmatizzate sono state elette a modello, sono entrate a far parte della mitologia nazionale.

 

Articolo di Dario Trevisan

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